"Le Palle Delprete"

Wimbledon, il tempio eterno dove ogni estate si celebrano i riti del tennis antico

C’è un luogo sulla Terra dove il tempo si arresta e ricomincia solo quando il cielo ha deciso. Dove l’erba non cresce: obbedisce. Dove il bianco è dogma e il silenzio prima del servizio è preghiera. Quel luogo non è un torneo: è un’apparizione. Quel Torneo è Wimbledon. Wimbledon. Il tempio eterno dove ogni estate si celebrano i riti del tennis antico con inchini, fragole e geometrie perfette. Wimbledon. Dove si entra vestiti di bianco e si esce, se fortunati, immacolati o dannati per sempre.

 

Ma un giorno, nell’anno del Signore 1992, qualcosa ruppe quel cerchio perfetto. Arrivò lui. Andre Agassi. Il pagano. Il dissoluto. Il ragazzo cresciuto tra i casinò e i miraggi di Las Vegas, con i capelli lunghi come i sogni dei ribelli e l’anima sporca d’America. Wimbledon l’aveva rifiutato. E lui, per tre anni, aveva ricambiato il disprezzo. Perché non voleva inchinarsi. Perché non voleva vestirsi da sposo per una chiesa che lo giudicava già colpevole. Perché, come tutti gli eretici, non voleva vincere: voleva convertire. E ci riuscì. Nel 1992, contro ogni pronostico, su quell’erba che odiava e che lo odiava, Agassi trionfò. Batté Ivanisevic, il crociato del servizio, in una finale che sembrava scritta da Euripide: 6‑7, 6‑4, 6‑4, 1‑6, 6‑4. Cinque set che non furono gioco, ma rivelazione. Perché quel giorno, il baseliner batté l’architetto del serve & volley. Il peccatore si prese la corona. E Wimbledon — immobile da cent’anni — fu costretto a respirare.

 

Non fu solo una vittoria. Fu una rivoluzione estetica e spirituale. Fu la dimostrazione che anche l’eresia può essere sublime e che anche chi rompe il rito può fondare una religione nuova. Fu la prova che si può venire da altrove — da dentro il peccato, da fuori il circuito della grazia — eppure entrare nella leggenda. Ma ogni profeta paga il prezzo del proprio annuncio. Agassi non avrebbe più vinto Wimbledon. Tornò, certo. Lottò. Ma il Tempio non dimentica. E come ogni mito tragico, il suo trionfo restò unico e irripetibile.

 

Oggi, su quell’erba che ha visto eroi e cadute, c’è un ragazzo che viene dal gelo e dal silenzio. Un ragazzo che parla poco ma colpisce forte. Che serve come se stesse offrendo qualcosa al cielo. Un ragazzo che non è eretico, ma apostolo di un tennis nuovo. Jannik Sinner, il primo italiano a osare così in alto, così in bianco. Jannik Sinner, il Titano Prometeo che ci ha regalato il fuoco del sogno, scardinando le porte dell’Olimpo e degli Inferi.

 

Jannik, che porta con sé la disciplina del presente e la fame di chi sa di venire da lontano. E Wimbledon lo aspetta. Lo teme. Lo osserva. Forse non vincerà oggi. Forse sì. Ma ciò che importa non è solo il trofeo. È il fuoco che porti. È ciò che lasci sull’erba. È il segno che, come Agassi, puoi incidere nella storia. E allora guardiamo Sinner con occhi antichi e cuori spalancati. Perché forse, in lui, c’è la nuova liturgia. O forse, semplicemente, il prossimo miracolo.