Trans Rights Map 2025: diritti trans in caduta libera, l’Italia scivola sempre più in fondo alla classifica europea
In un’Europa che ama definirsi culla di progresso e libertà, il 2025 segna un punto di non ritorno. I diritti delle persone transgender registrano la peggior battuta d’arresto degli ultimi tredici anni: a denunciarlo è la nuova Trans Rights Map pubblicata da Transgender Europe (TGEU), che per la prima volta nella sua storia documenta una regressione parallela dei diritti trans sia in Europa che in Asia. Il bilancio è amaro e impietoso: l’Italia si conferma tra i Paesi peggiori del continente, con un misero punteggio di 7,5 su 32, peggio persino di nazioni non appartenenti all’UE come l’Albania e la Macedonia. Solo Romania, Ungheria, Lituania e Bulgaria riescono a fare peggio.
Questi numeri non sono semplici statistiche: rappresentano la realtà concreta di migliaia di vite ridotte al silenzio, alla vergogna, all’invisibilità. A ricordarcelo con forza è Ymania Brown, direttrice esecutiva di TGEU, che non usa mezzi termini:
“Nonostante l’evidente deterioramento della situazione per le persone trans, molti leader politici bloccano i progressi e si tirano indietro. Ma è solo andando avanti che si può fermare l’attacco ai diritti e ai valori democratici. La dignità non è facoltativa. L’uguaglianza non è negoziabile. E, soprattutto, la libertà non è per pochi.”
Quella che stiamo vivendo non è una semplice frenata culturale. È un attacco politico e sistemico, portato avanti da una coalizione internazionale e trasversale che ha un obiettivo chiaro: smantellare i fondamenti delle democrazie liberali. Lo spiega la stessa TGEU, denunciando la connivenza tra i think tank ultraconservatori statunitensi, come la Heritage Foundation, le reti pro-Cremlino e i governi illiberali dell’Est Europa come quello ungherese e quello polacco. Il corpo trans diventa così terreno di battaglia simbolica, un bersaglio strategico per distruggere valori come uguaglianza, pluralismo, autodeterminazione.
La Trans Rights Map, realizzata sul modello della Rainbow Map di ILGA-Europe (che a sua volta ha posizionato l’Italia al 35° posto), raccoglie e analizza le politiche pubbliche in sei ambiti fondamentali: riconoscimento legale del genere, diritto d’asilo, protezione contro i crimini d’odio e l’incitamento all’odio, tutela contro la discriminazione, accesso alla salute e diritti familiari. I dati del 2025 sono sconfortanti: la regressione è più rapida e diffusa dei progressi, che restano pochi, frammentari e isolati.
In Georgia e Ungheria, ad esempio, sono stati approvati emendamenti costituzionali che limitano o cancellano i diritti delle persone trans e LGBTQ+. In Bosnia ed Erzegovina, la Repubblica Srpska ha eliminato le tutele contro i crimini d’odio. Anche in Kirghizistan e Tagikistan si assiste a una recrudescenza normativa, mentre il Kazakhstan rimane l’unico Paese dove si registra un effettivo riconoscimento legale del genere, sebbene in un contesto fragile e privo di tutele sociali strutturate.
In Europa occidentale la situazione non è molto più rosea: in Francia e Romania crescono le pressioni dei movimenti anti-gender, nel Regno Unito la Corte Suprema ha annullato parte delle leggi che proteggevano le persone trans dalla discriminazione.
La Danimarca e la Norvegia invece, con 26 punti su 32, restano baluardi indiscussi dei diritti, seguite dalla Germania, che si è distinta per la sua legge sull’autodeterminazione entrata in vigore lo scorso novembre
(24,6 punti), e dalla Spagna di Sanchez sempre più progressista (24,5). E l’Italia? L’Italia arranca nei bassifondi, intrappolata in una palude ideologica alimentata dal governo Meloni e dalle sue propaggini ultraconservatrici. Il punteggio dell’Italia – 7,5 punti su 32 – racconta di una campagna politica deliberata e ossessiva contro le persone trans e non binarie. Tra i primi obiettivi di questa feroce crociata c’è la carriera alias nelle scuole, prezioso strumento di civiltà nato per tutelare la salute mentale e la dignità di centinaia di persone trans o non binary permettendo loro di poter usufruire di un’identità diversa da quella anagrafica all’interno dell’ambito scolastico. La Lega ha presentato una proposta di legge che punta a renderla inaccessibile: sarà richiesta una certificazione sanitaria e il consenso obbligatorio di entrambi i genitori, creando una barriera insormontabile per molti giovani.
Ma non è tutto. Il governo intende obbligare l’accesso ai bagni e agli spogliatoi scolastici in base al “sesso biologico”, impedendo così alle persone trans di vivere la scuola in sicurezza e dignità. È il modello americano trumpiano della “bathroom bill”, importato e rilanciato in salsa italiana da figure come l’onorevole Laura Ravetto, che ha dichiarato pubblicamente: “Dobbiamo proteggere i nostri figli da ideologie pericolose e promuovere la verità biologica. I bambini devono essere educati secondo la loro natura, non confusi da derive gender.”
Nel frattempo, si propone l’introduzione del “consenso informato” obbligatorio per le famiglie su ogni attività scolastica che tocchi affettività, sessualità e identità di genere. Una misura che, di fatto, cancella ogni possibilità di educazione sessuale e affettiva nelle scuole primarie e secondarie, lasciando spazio – paradossalmente – solo agli interventi delle associazioni cattoliche integraliste. Emblematico il caso di Vercelli, dove un prete noto su TikTok è stato invitato a tenere un incontro con gli studenti delle scuole superiori, nel corso del quale ha attaccato il divorzio, l’aborto e le famiglie omogenitoriali, senza alcun contraddittorio.
In tutto questo, le istituzioni tacciono. O meglio: tace l’esecutivo, mentre l’unica voce a sollevarsi con fermezza è quella del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in occasione della Giornata internazionale contro l’omobilesbotransfobia del 17 maggio ha voluto ricordare che: “Contrastare l’emarginazione è un dovere morale e costituzionale. Una comunità inclusiva sa di dover proteggere le differenze, per costruire una società più giusta e coesa. Così si amplia la libertà di tutti.”
Nessun ministro ha partecipato alla manifestazione nazionale “Vennero a prendere me… e ci trovarono tuttə”, organizzata a Roma da decine di associazioni e attivisti. Nessuna dichiarazione, nessun gesto, nessuna solidarietà. L’assenza del governo Meloni è una presenza ingombrante, un segnale chiaro di disinteresse, se non di complicità. Eppure, quella piazza – gremita, colorata, determinata – ha urlato con forza che l’attacco ai diritti di una minoranza è il preludio alla negazione dei diritti di tutti.
La Trans Rights Map non è solo un report. È un monito, uno specchio. E quello che riflette oggi è un’Europa ferita, spaccata, incapace di proteggere i suoi cittadini più vulnerabili. Il nostro tempo ci chiede una scelta. Possiamo fingere che non ci riguardi, che sia una battaglia “di altri”. Oppure possiamo comprendere che ogni attacco a una minoranza è un attacco all’intera società democratica dato che la libertà non è un privilegio da distribuire a piacimento, ma un diritto universale. E la sua difesa è il solo argine possibile contro la barbarie che avanza perché la storia insegna che quando si abbandona una minoranza al buio, presto il buio arriva per tutti.