Fungo magico

“Se mi lasci, ti uccido”: il femminicidio tra parole che cantano e culture che tacciono

Debora Pioli

“Metti un guinzaglio alla tua ragazza, ci vede e si comporta come una tro*a”. (Tony Effe) Questa frase non arriva da un interrogatorio, da una chat di revenge porn o da un gruppo Telegram. È un verso, parte di una canzone ascoltata milioni di volte. Ballata. Ridacchiata. Recitata. Sottolineata nei commenti con emoji e cuori.

In questi giorni, l’Italia è attraversata da un’altra scossa. Non tellurica, ma umana. Due giovani donne — Sara Campanella e Ilaria Sula, entrambe di 22 anni — sono state uccise brutalmente. Due casi in 48 ore. Due ragazze con la sola colpa di aver voluto vivere libere. Uccise da uomini che non accettavano il rifiuto, che non tolleravano l’indipendenza emotiva, che credevano di avere il diritto di decidere se una donna doveva continuare a vivere o no.

 

L’etimologia di un delitto:

Femminicidio deriva dal latino femina (donna) e -cidium (uccisione): l’uccisione della donna in quanto donna. Non è solo un omicidio. È una soppressione di identità. È l’epilogo di una cultura che non riesce a vedere la donna come soggetto autonomo, ma solo come funzione: la mia compagna, la mia ex, la mia.

Introdotto nella lingua italiana su larga scala solo nel XXI secolo, il termine ha radici più profonde: lo usano le antropologhe, le criminologhe, le attiviste. Ma continua a incontrare resistenza nel dibattito pubblico, come se dare un nome a una realtà fosse un atto troppo radicale per essere digerito.

Parole come proiettili: quando la musica non è solo musica.

Non è una novità che la musica popolare rifletta e amplifichi ciò che la società produce. Ma negli ultimi anni, la trap e parte del rap italiano hanno radicalizzato un immaginario di dominio e sessismo. Lungi dall’essere solo “provocazioni artistiche”, molti testi veicolano immagini e narrazioni che normalizzano il controllo, la sottomissione, la violenza verbale e fisica nei confronti delle donne.

“Voglio una tipa che balla e che dopo lo fa. Voglio la figa, il cash, il rispetto”. (Shiva) “Ho una tipa diversa per ogni hotel”. (Sfera Ebbasta)

Il sesso come dominio. La donna come rotazione, come merce, come vuoto a perdere. Il rispetto, quando c’è, è solo quello per il denaro e il potere.

Non si tratta di moralismo, ma di contesto: quando questi versi diventano colonna sonora della crescita di milioni di giovani, bisogna chiedersi quale immaginario stiano contribuendo a costruire.

 

Dalla cultura del possesso alla pedagogia del rifiuto:

Uno degli elementi più ricorrenti nei casi di femminicidio è l’incapacità maschile di accettare il rifiuto. Non a caso, sia Sara che Ilaria sono state uccise da uomini che si sentivano respinti. “Il malato mi segue”, aveva scritto Sara alle amiche. Ilaria è stata uccisa da un ex che, per giorni, ha fatto credere che fosse viva, rispondendo dai suoi account social.

Questi non sono casi isolati. Sono il riflesso estremo di un’educazione sentimentale assente. Dove nessuno insegna a perdere, a lasciar andare, a convivere con la frustrazione senza trasformarla in controllo. Dove l’amore viene ancora raccontato come qualcosa che si prende e non si costruisce.

Educare prima che punire:

Nel 2025, il governo ha inasprito il Codice Rosso e introdotto l’ergastolo per il reato di femminicidio. Un passo necessario, ma non sufficiente. Il vero fronte su cui intervenire è quello della prevenzione, soprattutto nelle scuole.

A febbraio, una proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione di 33 ore annue di educazione affettiva e sessuale ha superato le 50.000 firme. Eppure, le resistenze sono forti. La ministra della Famiglia Eugenia Roccella ha recentemente sostenuto che l’educazione sessuale “non riduce i femminicidi”. Ma dati dell’Oms e dell’Unesco smentiscono questa posizione: la conoscenza emotiva riduce il rischio di violenza. Perché prima di arrivare a colpire, qualcuno deve aver appreso che colpire è una risposta possibile.

 

Canzoni da riscrivere:

Non si tratta di censurare gli artisti. Ma di chiedere loro più responsabilità. Di usare la potenza del linguaggio per aprire spazi, non per chiudere bocche. Di raccontare la complessità delle relazioni, senza cedere sempre alla banalità del potere. E forse, un giorno, potremmo ascoltare una hit dove un uomo canta: “Se mi lasci, ti rispetto”.  E ci sembrerà finalmente normale.

 

“Fungo Mag” sostiene l’introduzione dell’educazione affettiva nelle scuole. Perché la rivoluzione si fa anche con le parole. E il futuro si costruisce anche con ciò che si canta.