"Le Palle Delprete"

Roland Garros 2025, Džumhur perde contro Alcaraz ma brilla e incanta per la tenacia

Damir. Nome elegante, che rimane pastoso e gentile in bocca dopo averlo pronunciato. E poi Džumhur. Cognome duro, strano e anche un po’ storto. Damir Džumhur, nato a Sarajevo nel 1992. Damir Džumhur, germoglio sopravvissuto, raccolto e fiorito fra le 11mila vittime e i 52mila feriti di quell’assedio nel cuore d’Europa che ha segnato, fendente virulento e mai rimarginato, l’infanzia e l’adolescenza degli anni ‘90. Damir Džumhur, voce nata fra voci spente prima del tempo. Viaggio nel tempo, a tornar a quando vagiva in guerra come lui appena nato.

1992.
E l’eco di Perestrojka.
1992.
E la Jugoslavia si scioglie.
1992.
E gli attentati dell’ETA.
1992.
E le Olimpiadi di Albertville.
1992.
E Mike Tyson condannato per stupro.
1992.
E l’alba di Bill Clinton.
1992.
E Salvo Lima ammazzato.
1992.
E la Pravda.
1992.
E l’Apartheid che cade.

1992 e le 17:58 del 23 Maggio in cui non fummo Capaci di salvare Falcone.

1992.
Barcellona, le Olimpiadi e Freddie che ancora risuona con la Montserrat Caballé.

1992.
E Steffi Graf e Andre Agassi che iniziano parabola di loro coppia infinito vincendo all’unisono Wimbledon di bianco vestiti.

1992 e io che affamato — adolescente ancora molto poco formato — vibravo incosciente fra fanciullezza e Doors, Guns N’ Roses, Smells Like Teen Spirit, MTV e libri da adulti rubati.

1992 e casa sperduta fra pini e camino coi miei abitata e adorata.
1992 e ancora poco per Diario di Zlata che nel cuore traccia — di quella Sarajevo — è rimasta tracciata.

Damir. Occhi spiritati, testa e barba spigolose alla Djokovic su corpo troppo corto, stretto e da adulto bambino.
Damir di Calabrone che non avrebbe mai dovuto volare, eppur vola. Damir. Un metro e settantacinque d’altezza per settanta chili scarsi di peso, ché neanche sembra vero — così storto, strano e sbilenco — in quel campo. Damir che quando ho acceso Tv per il match, tra te e Alcaraz, mi sembrava d’esser solo spettatore molesto a guardar da pertugio l’agnello che vien ucciso come pegno su altare d’altri. Tu, brillante modesto germoglio fiorito in brutture, contro il Tennis moderno. Tu, calabrone senza ali né armi, contro di terra semi-perfezione sviluppata, fecondata, allevata e voluta.

Click. Flash. 1992. Quando t’ho visto così, su quel campo, tener spazio irrequieto e smarrito, ho pensato a tutto questo.

E avrei quasi anche spento, d’improvviso. Eppure in te — giovane strana vecchia promessa che non avrebbe mai potuto volare eppure ha ancora addosso cicatrici di ali che l’hanno portato, farfalla, ad esser 23 al mondo per un battito d’ali — ho rivisto quegli anni. Quelle radici di tigna che scavan furenti, quelle gocce di vita che s’inerpicano bastarde fra infime rocce da destino disegnate e piazzate. Eppur per te — e per tutto quello che m’hai ricordato — ho continuato a guardare. Ho continuato a guardare dopo l’1-6 del primo set. E ho continuato a guardare anche dopo il 3-6 del secondo. Perché ti vedevo soccombere, ma sotto le braci perseverare e brillare. E poi, Calabrone che spicca il volo senza neanche sapere come, ti ho visto a quel Furetto Titano Infinito strappare il terzo 6-4 come segno di vita, di gloria e di resa mai arresa. E poi ancora e per sempre ti ho visto al quarto lottare — d’impari armi e talenti — break su controbreak per un segno anche oggi sulla Terra di Sangue, Ferro, Sport e Vita lasciare.

4-6, dopo battaglia che sarebbe dovuta durare un’ora e invece fregna, ha superato tre ore.

4-6 sudato, voluto, sperato e strappato come vessillo di ciò che sei, di ciò che sei sempre stato, di ciò che sei nato. Ciao, Damir. Stasera ho acceso la Tv quasi annoiato. Poi a un certo punto c’ho quasi sperato. Però ti ringrazio. Per le emozioni che tu ed il Tennis anche oggi m’avete regalato. Perché non c’è altro come il Tennis, se non la vita, a ricordarti che puoi volare — anche per poco — pur non avendo le ali.