De Clizibus

Pericolosa escalation ideologica della polizia al tempo del governo Meloni

Sabato scorso, a Milano, si è verificato l’ennesimo episodio di sfregio alla nostra democrazia. Durante la manifestazione pro Palestina, a cui hanno aderito più di 10.000 persone, gli agenti di polizia hanno prima formato provocatoriamente un cordone su entrambi i lati della strada, stringendo a più riprese il passaggio del corteo all’altezza di piazzale Baiamonti, poi hanno iniziato a caricare brutalmente e senza reale motivo apparente in assetto antisommossa, provocando numerosi feriti fra i ragazzi inermi e indifesi arrivati nel capoluogo lombardo unicamente per chiedere pace e aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Il tutto è stato ripreso e acclarato da numerosi video diventati virali nelle ultime ore, da cui è emersa un’ulteriore realtà agghiacciante: due poliziotti (ma potrebbero essercene degli altri) indossavano giacche non autorizzate raffiguranti l’uno un’aquila gigante con la scritta in polacco “Narodowa Duma”, ossia “Orgoglio Nazionale”, simbolo di un gruppo neonazista polacco, l’altro un logo riconducibile secondo molti al gruppo “Teschi dell’Aquila”, ultras di estrema destra polacchi e militanti neonazisti. La Digos per fortuna ha già identificato il primo dei due agenti, mentre la questura di Milano sta approfondendo la vicenda per valutare eventuali responsabilità disciplinari per entrambi, ma la cosa sconcertante di tutta questa vicenda è la condotta sempre più politicizzata e squadrista di un organo che dovrebbe difendere e rappresentare le istituzioni e lo Costituzione, garantendo giustizia e sicurezza in maniera imparziale. Si indignano se chiedi loro di indossare targhette identificative e bodycam come avviene in tutti i Paesi più civili del mondo, ma non si fanno scrupoli ad essere identificati e associati ad altri simboli vergognosi che hanno rappresentato il momento più buio dell’umanità, dimenticandosi troppo spesso che chi indossa una divisa rappresenta lo Stato e lo Stato non può permettersi ambiguità.

Purtroppo il clima di protezione e sdoganamento del neofascismo in atto nel nostro Paese per mano del governo Meloni, ha contribuito alla diffusione di un clima di odio senza precedenti, facendo registrare un’escalation di episodi sconcertanti anche all’interno delle forze dell’ordine, dove sembrano sempre più frequenti atteggiamenti repressivi e sproporzionati nei confronti del dissenso. Non si tratta più di eccezioni, ma del segnale allarmante di una deriva autoritaria ormai in atto, come dimostrano, tra gli altri, gli emblematici episodi avvenuti a Pisa, Bologna e Brescia appena pochi mesi fa. Nella città toscana studenti minorenni che manifestavano pacificamente contro il genocidio in Palestina sono stati caricati brutalmente, a Bologna un corteo antifascista è stato affrontato con lacrimogeni e manganelli mentre in città si svolgeva indisturbata una commemorazione neofascista, a Brescia si è verificato un aberrante abuso di potere contro inermi attiviste pacifiste, condotte con la forza in questura, denudate e sottoposte a perquisizioni moleste alquanto discutibili. Questi episodi non sono scollegati tra loro, ma inseriti in un contesto più ampio: quello di una narrazione politica che tende a criminalizzare la contestazione, a legittimare simboli e linguaggi nostalgici e contribuisce a normalizzare pericolosi comportamenti repressivi, erodendo a poco a poco le basi democratiche del nostro ordinamento.

Con l’attuazione forzata del ddl sicurezza, trasformato appositamente in decreto per aggirare l’iter parlamentare, l’intenzione della maggioranza era quella di garantire addirittura immunità e impunità totali alle forze dell’ordine attraverso uno scudo penale che, per fortuna, è stato momentaneamente congelato per volontà del Presidente Mattarella, ma la transizione da uno Stato di diritto a uno Stato illiberale di polizia è ormai chiara: l’obiettivo dei 39 vergognosi articoli è quello di amputare il dissenso alla radice, dissuadendo ogni forma di contestazione attraverso la minaccia della forza. Impedire che le persone abbiano ancora il coraggio di scendere nelle strade per difendere i propri diritti, o quelli altrui, per timore di finire in caserma senza sapere come, o se, ne usciranno è una vera e propria strategia di intimidazione, che veicola un messaggio preciso: chi protesta deve avere paura. Paura di una denuncia, di un fermo, di una manganellata. Lo Stato smette di essere percepito come garante dei diritti e diventa un apparato da temere. Così facendo non si aumenta la sicurezza dei cittadini, si aumenta il controllo sui cittadini. Hanno introdotto il carcere per chi occupa edifici dismessi, spesso giovani, studenti, realtà culturali e sociali che colmano il vuoto lasciato dalle istituzioni. Inasprito le pene per chi manifesta, rafforzato i poteri delle forze dell’ordine senza adeguati contrappesi, colpendo in particolare i movimenti studenteschi, sindacali, ambientalisti e antifascisti. Questa non è solo una questione politica. È una questione morale, civile e storica. La nostra Repubblica è nata dalla Resistenza. Il diritto a manifestare, a esprimere dissenso, a lottare per un mondo più giusto non sono concessioni: sono diritti inviolabili. Lo Stato che reprime chi dissente, chi lotta, chi pensa, smette di essere uno Stato democratico. Il decreto sicurezza è un segnale di pericolo. Ma la storia ci insegna che nei momenti più bui, la resistenza civile sa riaccendere la luce. Tocca a noi farlo. Tocca a noi difendere la Costituzione non solo con le parole, ma con la presenza, con la partecipazione, con il coraggio, perché chi reprime una voce libera oggi, domani potrà mettere il bavaglio a tutti.