"Le Palle Delprete"

L’Urlo e la Benedizione, Sinner prima stravince e vola ai quarti di finale e poi viene ricevuto da Papa Leone XIV

Roma, 13 maggio 2025. Ieri, sulla Capitale, il cielo grondava presagi e fuliggine celeste. La pioggia, come pianto divino, ritardava lo scontro. Poi, finalmente, fu il tempo delle racchette che si tramutano in spade.
Due ore e diciotto minuti. Due ore e diciotto minuti di tensione, dolore, passione e battaglia per tornare possente a vibrare; per strappare l’anima a un destino nuovo e ancora incerto. Due ore e diciotto minuti per riscrivere di Vangelo ritorno. Poi, l’urlo. Quell’urlo. Quell’urlo strappato di viscere e rabbia a un eroe che del silenzio ha sempre fatto armatura brillante.
Quell’urlo, alla fine. Liberatorio e ardente. Quasi naufragato, eppure possente.
Dirimente e dirompente. Voluto, cercato, volante. Urlo di corazza che si ricompone, accecante. Urlo di presenza tornata, abbagliante.

L’urlo di Jannik.
Non un suono, ma una frattura nella realtà. Una crepa nella cupola stessa del Centrale, che si allarga tellurica fino al Foro, al Tevere, a Roma e all’Italia intera. Un urlo di brace viva sotto la cenere. Di scintilla riaccesa. Di brace che diventa fiamma, fiamma che diventa luce. Luce che torna a bruciare l’ombra della sconfitta. Francisco Cerúndolo, avversario nobile e affilato, ha fatto da tramite. Era lama, affondava come una lama. Ma alla fine si è piegato, mesto, come solita incudine. Jannik lo ha piegato in due set, 7-6(2), 6-3, con smorzate che sembravano carezze del Caravaggio e rovesci lungolinea che baciavano la riga come dita di Dio. Le vesciche, il sudore, il sangue: ogni goccia un’offerta.
Ogni punto, un salmo.
Ogni scambio, un atto liturgico. E poi, dopo quella liturgia, oggi un’altra – ancor più iconica, magistrale e storica – messa sacra e profana insieme.
Oggi, sotto un cielo Capitale più cheto e sereno, la scintilla ha varcato leggera e silente le soglie terrene di un altro, ben alto, paradiso: la soglia di Pietro. Lui – il Cavaliere della Scintilla Infinita – al cospetto, con la famiglia e la Federazione, del nuovo Papa. E lì, nel bianco immenso e in quella solennità che sa ancora parlare il linguaggio degli occhi e della carne, è accaduto. Non è stata cerimonia. Non è stato evento. È stato riconoscimento.
Non tra potere e successo, ma tra uomo e mistero. Lui – il Papa nuovo, il Leone che ascolta e osserva – e Jannik, scintilla. Uno che guida anime. L’altro che le accende. Si sono parlati. Con lo sguardo, con un sorriso timido, con la racchetta donata come si dona un talismano. E nel mezzo, Roma. Silente e grata. Perché ci sono momenti in cui non serve parlare. In cui la benedizione è tacita, ma eterna. In cui l’altare non è solo quello di marmo, ma anche una riga baciata, una vescica che brucia, un urlo che spacca il cielo. E allora sì, fra ieri e oggi – tra rovesci, pioggia, campi e strade – qualcosa si è compiuto. Jannik non ha chiesto nulla. Ha portato se stesso. Intero. Con i suoi dolori, le sue pause, le sue vittorie. E in cambio ha ricevuto silenziosa conferma di esserci ancora, e di esserci più che mai. Roma ha visto. Il Papa ha visto. Noi – ognuno fedele del suo miracolo quotidiano – abbiamo assistito. E ora possiamo dirlo: l’urlo ha trovato benedizione.