"Le Palle Delprete"

Jannik Sinner vince da fermo, mentre gli altri si rompono, si azzuffano, perdono e si perdono

Mattia Bellucci, “BelloBellucci”, uno dei nuovi alfieri del Rinascimento azzurro, uno dei cavalieri di questa era incredibile, il viso pulito col capello al vento, oggi ha macchiato – provocato – la sua armatura.
Eh sì, perché la partita tra lui e Samir Dzumhur resterà nella Storia, forse, ma non certo per il Tennis.

Un match nervoso, isterico, teso come una corda che non vuole suonare.

Il bosniaco, numero 63 del mondo, è entrato in campo con l’atteggiamento di chi ha qualcosa da dimostrare ma nessuno a cui interessi. Proteste a raffica, contestazioni perfino all’occhio elettronico, racchetta agitata come una spada in un duello che esisteva solo nella sua testa. Richiesta del supervisor in campo. Scambi velenosi con l’arbitro. Sguardi storti anche verso Bellucci, colpevole solo di esserci.

Poi il caso: servizio da sotto di Dzumhur – una di quelle “bastardate” figlie dello scherno o della disperazione – e Bellucci che alza la racchetta per dire “non sono pronto”, con l’arbitro che annulla il punto.
E lì, proprio lì, che scatta la furia. Si litiga per cinque minuti su una decisione già presa. Si arrampicano sui dettagli come se il tennis fosse una seduta al TAR. E invece fregna, ha ragione Bellucci.
Ma dalla ragione al torto il passo è breve. E il Karma è caldo.
Perché poi Bellucci decide di “vendicarsi”, provando a ripagare il bosniaco con la stessa moneta: il servizio da sotto.
Punto. Ma adesso è Dzumhur che non ci sta. “Non sono pronto io, adesso”, si lamenta.
Invano. Perché il punto rimane, dopo l’ennesimo teatrino indegno chiamato questa volta VAR.
Ma il karma, appunto, non perdona. E infatti Bellucci, alla fine, perde.

Ma non perde l’occasione – quella no – per dare un’altra sverniciata a un match assurdo.
Saluti finali, a rete. Bellucci tende la mano e la ritira. Una finta, uno di quei gesti ridicoli che si facevano da piccoli, la mano che si scosta per scherno e si ritrae (mancava solo che la passasse fra i capelli). Un gesto piccolo. Uno di quelli che non fanno danno, ma fanno abbastanza schifo. Perché lo sport, specialmente il tennis, prima di essere sfida è rispetto. Di sé e dell’avversario, comunque vada in campo. E quando manca, resta solo quella che sembra terra, invece è fango.

Un gesto che fa sentire ancor più La Sua Mancanza.

Perché in un tennis che perde la bussola a ogni cambio campo, c’è uno che la bussola ce l’ha piantata dentro. Non parla. Non sbraita. Non fa sceneggiate. Aspetta. Lavora. Domina. Anche da fermo. Jannik Sinner, oggi, è il numero uno del mondo. E lo sarà almeno fino al 10 giugno. Un anno intero, 52 settimane ininterrotte sul trono, come solo i più grandi.
Ed è primo non solo perché lo dice il ranking, ma perché lo conferma ogni giorno chi gli gira intorno — sfiancato, nervoso, spezzato, mentre lui, zitto, sale.
A Madrid, il circo è montato senza di lui. Ma invece di approfittarne, gli altri si sono incartati.

Carlos Alcaraz si è fatto male. Di nuovo. Il muscolo non regge, la testa forse nemmeno, come detto dal suo stesso allenatore. E allora salta Madrid, e forse Roma, e forse anche un pezzo di fiducia. Perché quando il corpo si spezza, il resto segue. Sinner no. Sinner è fermo, sì. Ma saldo. Solido. Totale.

Pronto a tornare. (Roma, Amburgo e Roland Garros dovrebbero essere i primi tornei atp) Tornare, prima di tutto, ad esser faro. Dentro e fuori quel maledetto campo.