C’è un silenzio, nel tennis, che non ha niente a che fare con il rispetto.
È il silenzio che arriva quando non capiamo più cosa stiamo guardando. Quando manca qualcuno che ci aiuti a vedere. A leggere. A pensare.
Quel silenzio è nato il giorno in cui David Foster Wallace ha smesso di scrivere. E di vivere.
E quel silenzio, no, non si è più colmato.
Prendete, ad esempio, Il tennis come esperienza religiosa.
No, quello non è un libro: è una lente di ingrandimento su ciò che siamo.
Wallace non ci spiega il tennis: lo attraversa. Lo viviseziona con la precisione di un fisico e lo esalta con la lingua di un poeta.
Ti dice che Re Roger non è solo bello: è inspiegabile.
Che il talento, quando raggiunge certe vette, non è più umano — ma divino.
Che ci sono momenti, in campo, in cui la realtà collassa su sé stessa. Ed è lì, proprio lì, che nasce la grazia.
Una grazia feroce, precisa, sconvolgente, che ti scava dentro. Esattamente come ti – e si – scavava dentro Wallace: uno che guardava troppo per poter sopravvivere tranquillo.
Lo chiamano “saggio”, quel libro, ma è riduttivo. Quel libro è una rivelazione, nel senso più “ecclesiastico” e laico allo stesso tempo.
In quelle poche pagine, Wallace fa ciò che oggi nessuno osa più fare: collega l’atletica alla metafisica, la carne allo spirito, lo sport alla filosofia.
Dice che un passante lungolinea può assomigliare a un haiku.
Che il tennis è uno sport per solitari in cerca di perfezione divina. Che ci sono “momenti” così intensi che ti permettono di capire l’impossibilità di quello che hai appena visto fare in campo.
Che ogni gesto, in campo, può essere preghiera o condanna.
E oggi, oggi, cosa abbiamo al posto di tutto questo? Cosa è cresciuto, nel suo silenzio?
Abbiamo telecronache urlate. Abbiamo dati, statistiche, chilometri orari, “analytics”.
Abbiamo una società che misura tutto e capisce poco.
Abbiamo l’impressione costante che la bellezza non basti, se non fa engagement.
E il tennis, come il resto del mondo, si è riempito di rumore.
Rumore che copre. Rumore che nasconde.
Rumore che serve a non pensare.
Wallace manca.
Manca come manca l’aria sottile nelle cime montuose e tortuose.
Manca come manca il coraggio di dire qualcosa che non si possa semplificare in un reel.
Manca la sua ossessione per l’onestà, la complessità, l’umano.
Wallace non era solo un genio della scrittura. Era un uomo che si consumava per capire.
Uno che parlava di tennis e finiva per raccontare Dio, la fatica, l’ego, il tempo, la morte.
Chi apre Il tennis come esperienza religiosa oggi, si trova davanti a un oracolo.
Un’epifania vestita da reportage.
Federer non viene descritto: viene interrogato come un enigma antico.
E Wallace lo fa con la precisione commossa di chi ha capito una cosa fondamentale:“La vera grazia si riconosce solo quando non sappiamo come descriverla”.
Oggi mancano menti come la sua.
Manca una voce che dica che lo sport è una mappa del nostro mondo interiore.
Manca qualcuno che abbia il coraggio di fermarsi e dire: “Aspetta. Questo non è solo un punto. È qualcosa di sacro”.
Manca Wallace.
E nel suo silenzio assordante, il tennis continua.
Ma lo fa con un buco al centro.