Gli Internazionali di Roma attendono il ritorno in campo di Sinner per proclamarlo imperatore
Jannik, il ritorno.
E no, non è un ritorno qualunque: è il ritorno del sole dopo l’eclissi, del fuoco che sventra il ghiaccio, della voce che frantuma il silenzio. Roma lo aspetta come si aspetta l’ultima diligenza in un film western: con il fiato corto, gli occhi spalancati e le mani già in battaglia, perché tre mesi senza di lui sono stati lunghi come una traversata nel deserto. Lui, Sinner Scintilla d’Infinito. Costretto fermo, pur senza colpe. Lui, il Cavaliere Roscio dall’armatura diamantifera e mortifera, costretto immobile senza il suo ossigeno di campo. Immobile, ma pur sempre primo. Immobilità apparente che cela a malapena il suo potere immenso. Un vulcano apparentemente cheto che dorme con un occhio solo.
A Roma però, dal 4 maggio, al Foro Italico, il vento cambierà direzione.
Il campo si farà arena e il gioco rito primordiale, il sangue che ribolle nella polvere di terra. Lì, proprio lì, l’attesa messianica finirà e il popolo del Tennis ritroverà la sua guida, dopo tre mesi amputati in competizione e passione. Sì, gli altri hanno giocato, ma senza lui erano tornei d’ombre furtive che arrancavano nella penuria di luce e non riuscivano a risaltare senza riflesso. Sì, il Tennis è andato avanti. È andato avanti come un deserto senza sole, come una canzone senza voce, come un libro senza parole. Adesso però, lo Schiaffo di Dio è pronto a risuonare alto nei cieli del Tennis. A Roma. E a partire da Roma. Perché sì, Roma – pur come fosse l’anfiteatro Flavio che aspetta solo il suo Imperatore per suonare la carica su chi si crede leone – è solo la prima tappa di questa nuova Era. Nessuno, nessuno chiede a Jannik di trionfare subito, adesso, per forza, dopo tre mesi di costrizione bastarda senza l’adrenalina della competizione. Potrà vincere, forse, grazie alla rabbia accumulata pronta a esplodere e incenerire tutto, sì. Ma potrà anche uscire di scena prima della finale, certo.
Tutto questo però conta poco. Quasi nulla.
Perché Roma sarà il tributo a chi ha scontato l’ingiusto esilio; sarà il primo pistone che inizia a ruggire nel motore dell’assoluto; sarà l’acuto di chi si prepara a cantare e incantare da solo, per il prossimo decennio. Roma sarà la prima pietra del nuovo tempio.
E poi subito dopo Amburgo. Amburgo la fredda, Amburgo la severa.
Lì dove il cielo non promette, ma giudica.
Lì dove il rosso della terra si fa quasi cenere.
E lì Jannik arriverà come una cometa che – dopo aver orbitato in un buco nero – ricomincia poderosa a viaggiare in silenzio. Ci arriverà come un pugile che ha contato tutti i secondi del mondo e adesso ha il guantone carico di furia, dolore e passione. Ogni colpo sarà una sillaba. Ogni punto, un messaggio.
“Sono tornato.”
“No, non me ne sono mai andato.”
E poi, Parigi.
Il Roland Garros.
Il teatro dell’estetica feroce.
Dove si balla nel fango e si prega tra le righe.
Dove le racchette diventano spade e il tempo si piega alla volontà dei fuoriclasse. Lì dove Nadal ha ridisegnato il concetto di impresa, fondendolo con l’impossibile, e dove Re Roger ha inciso il suo unico haiku. Lì, proprio lì, dove adesso tocca a Jannik. E non solo per vincere — perché quello lo sa già ben fare. Ma per incendiare l’aria, come solo i predestinati possono osare. Perché Jannik, dalla settimana prossima, non torna, no. Lui riappare. Come fanno gli astri, come fanno i miti, come fanno i padri.
Jannik riappare come la risposta alla domanda che neanche sapevamo d’aver fatto.
Jannik riappare come l’omerico eroe che dell’equilibrio ha fatto arma e della calma ha fatto urlo di battaglia. Jannik riappare. E, pian piano, si rimette in moto anche il sistema solare.