Femminicidio, un aberrante fenomeno culturale e sociale, il parere di una psicologa in prima linea
Sono passati quasi sei mesi dall’inizio dell’anno. In Italia, decine di donne sono state uccise. Alcune per mano di chi diceva di amarle. Altre da chi non ha accettato un rifiuto. Da nord a sud. Una dopo l’altra, silenziosamente. E troppo spesso, in solitudine. Tra le più recenti c’era Martina, aveva 14 anni. L’ha uccisa l’ex fidanzato con una pietra. C’era Mary, insegnante, uccisa dal marito che poi si è tolto la vita. C’era Denisa, trovata senza vita dopo giorni di ricerche. E forse ce ne sono anche altre, che ancora non sappiamo nemmeno di aver perso. A volte chi uccide è un uomo adulto, padre di figli e con una moglie. Altre volte è un ragazzo appena maggiorenne. Cambiano le età, le storie e le regioni. Ma il copione è sempre lo stesso. Un amore che non è amore. Una relazione che diventa controllo. Un possesso che sfocia nella violenza. Una donna che pensa di essere amata, invece viene solamente controllata.
Per questo abbiamo scelto di andare oltre i numeri. Di guardare dentro. Abbiamo rivolto alcune domande alla dottoressa Manuela Giuliani, psicologa e psicoterapeuta, del centro clinico Das di Lucca, per avere un parere professionale su un fenomeno che non può essere affrontato solo dalla magistratura e dalle forze dell’ordine. Perché è, prima di tutto, una questione culturale, sociale e umana.
In questi primi sei mesi dell’anno si è registrato un numero preoccupante di femminicidi, molti dei quali tra i giovani. Secondo lei da cosa dipende questa crescente violenza?
“Beh, secondo me i fatti parlano da soli. La violenza nasce molto spesso da un’educazione affettiva carente, se non mancante del tutto. Da una cultura che confonde ancora troppo l’amore con il possesso e da una crescente incapacità emotiva di fronte ai “no”, di fronte al rifiuto, alla fine di una relazione. Questi fenomeni, che ho appena detto, si amplificano, diventano più grandi in un contesto in cui i social esasperano dinamiche di controllo, esposizione e gelosia. I social sono, attraverso questi benedetti smartphone, uno strumento sul quale dobbiamo lavorare. I femminicidi parlano da soli, il numero crescente, soprattutto nei giovani, è un segnale drammatico di quanto la violenza di genere sia radicata, profonda, trasversale”.
C’è un cambiamento generazionale nel modo in cui si vive la relazione di coppia che può aver contribuito a questo fenomeno?
“Sì, secondo me c’è un cambiamento evidente. Le relazioni oggi sono vissute dentro una cornice digitale continua social messaggistica status online storie condivise. Ti blocco non ti blocco. Questo spesso rende i confini tra cura, controllo e sorveglianza molto, molto confusi. I giovani tendono a vivere legami molto intensi, quasi invadenti, ma poco strutturati, dove gelosia viene scambiata per amore, e l’insicurezza personale viene compensata attraverso il possesso dell’altro. C’è un cambiamento culturale che va capito, non giudicato, ma affrontato ed è qui che mi fermo con strumenti educativi”.
Quali sono i segnali più comuni di una relazione tossica o pericolosa, soprattutto tra i giovani?
“Allora i segnali ci sono e sono ben visibili, non devono essere normalizzate e normalizzati. Ecco, mi viene da fare proprio l’elenco della spesa e questo elenco vorrei che fosse chiaro ai genitori, educatori, insegnanti: i segnali sono il controllo costante su abbigliamento, amicizia, attività, social, gelosia eccessiva, gelosia presentata, magari come segno d’amore, isolamento da amici e familiari, “ma che ci vai a fare”. Ricatti emotivi “se mi lasci mi faccio del male se mi lasci starò malissimo”, svalutazione o derisione anche in pubblico, manipolazione affettiva, alternanza di aggressività e pentimento: ti do uno schiaffo, ti tratto male, però poi dico “non lo farò mai più ti amo ,mi sono sbagliato scusa”. Un altro punto è la difficoltà a rispettare i “no” dell’altro, ma se uno mi tratta male, basta, se mi ami, non mi tratti male. Monitoraggio continuo con chiamate e messaggi c’è diciamo un controllo. Altro problema sono le esplosioni di rabbia, rabbia anche non verbale, le mani che diventano strumento di parola, no assolutamente. E poi, infine, dopo la paura del partner di farlo arrabbiare, di parlare liberamente, questi sono segnali, vanno riconosciuti presi sul serio. Non sono fasi dell’adolescenza badate bene, le fasi dell’adolescenza sono altre. Questi sono segnali di pericolo”.
Secondo lei, quanto incide l’educazione affettiva (o la sua mancanza) su questi episodi di violenza?
“L’educazione o la mancanza di educazione affettiva su questi episodi di violenza incide tantissimo. Soprattutto quando bambini, ragazzi non ricevono un’educazione affettiva, chiara, vera, autentica, sana, finiranno per costruire poi le loro relazioni su modelli sbagliati, modelli fatti di paura, di dominanza e di dipendenza. Non è un compito solo della famiglia e della scuola ci mancherebbe, ma un impegno anche collettivo con l’aiuto di professionisti formati e riconosciuti”.
Cosa può spingere un uomo a uccidere la propria compagna e poi togliersi la vita?
“Alla base di questi atti estremi ci sono spesso dinamiche di controllo, possesso, dipendenza affettiva e tante altre cose. L’omicidio – suicidio rappresenta in molti casi l’epilogo tragico di una relazione in cui il maschile non tollera la perdita del dominio del possesso sulla compagna, se lei sceglie e decide di lasciarlo, se lo contraddice, è chiaro che lui la percepisce come una minaccia al proprio se. È una dinamica patologica mai giustificabile, mai giustificabile. Che ha radici emotive culturali e molto spesso psicopatologiche, perché uccidere la donna e poi se stesso diventa nella distorsione cognitiva dell’autore, un modo per risolvere ciò che non riesce ad affrontare”.
In molti casi non ci sono denunce o episodi di violenza noti: è possibile che una relazione tossica resti “invisibile” agli occhi esterni?
“Sì, assolutamente sì, perché se fossero così evidenti, riusciremo a disinnescare le relazioni tossiche, che sono invisibili perché chi le vive può non riconoscere subito i segnali di abuso La violenza è psicologica, manipolatoria e silenziosa. La vittima ha vergogna, ha sensi di colpa e il partner abusante può apparire affascinante, gentile in pubblico, carino, poi si chiude la porta e accadono cose. Molte donne si trovano in situazioni tossiche senza strumenti per uscirne e senza che gli altri se ne accorgono. Dobbiamo imparare tutti a riconoscere i segnali anche quelli più sottili, per poi poter parlare con la vittima, parlare come si diceva prima, supportandola senza giudizio, ed è lì che comincia la prevenzione”.
Cosa succede nella mente di chi commette un omicidio-suicidio? È una decisione lucida o una reazione impulsiva?
“Beh, questa domanda è complicata io anche quando insegno, dico “siamo impronte digitali”, ognuno è diverso dall’altro. Per cui non c’è una risposta unica, in alcuni casi ci può essere un gesto impulsivo, dettato da una crisi emotiva violenta, in altri è pianificato e preparato nei dettagli. Allora in tutti i casi si tratta di una rottura profonda con realtà empatiche, siamo dentro un delirio. Chi compie un omicidio suicidio possiamo pensare che possa essere affetto da disturbi narcisistici di personalità, disturbi antisociali, depressione grave, ma non sempre c’è una diagnosi psichiatrica, chiara. Tutti quei disturbi, chiaro che sono malattie contenute nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM5, di certo c’è una mancanza di strumenti affettivi e di contenimento emotivo. Spesso una cultura che legittima il controllo e la virilità come potere”.
Il femminicidio è spesso raccontato come “gesto di follia” o “raptus improvviso. Quanto è sbagliata questa narrazione?
“Il femminicidio è molto spesso raccontato come un gesto di follia, raptus improvviso, e questa narrazione è sbagliata, pericolosa e fuorviante. Parlare di raptus o gesto di follia trasforma un omicidio in un evento inevitabile, imprevedibile, e quesrto è fuorviante e soprattutto deresponsabilizza l’autore e cancella la storia di violenza che spesso precede il fatto che è un omicidio. Il femminicidio non è una malattia mentale è un atto di potere di controllo e qualcosa di evitabile e di prevedibile. La parola raptus secondo me dovrebbe essere eliminata dal vocabolario giornalistico perché normalizza e banalizza l’orrore”. Non una di più…