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“Death Stranding 2 – On the beach”, il videogioco del maestro Kojima che riflette la realtà

Il concetto di videogame come forma d’arte è ancora un concetto pericolosamente nebuloso. Creare forme d’intrattenimento attivo con lo scopo di portare tematiche importanti o immagini di enorme potenza in un mondo, quello videoludico profondamente incasellato in generi e succube del grande pubblico è sempre un rischio. Paradossalmente un videogame può venire a costare molto più delle più grandi produzioni Hollywoodiane, con conseguente rischio di ingenti perdite finanziarie e un odio appassionato, quasi Jihadista, verso la casa di produzione.

Il videogiocatore è un essere strano, confuso quanto convinto delle proprie certezze, capace di riversare odio e frustrazione verso l’ultima fatica di una casa di produzione che precedentemente aveva amato follemente. Un caso specifico è quello di Naughty Dog, creatori del beniamino Crash Bandicoot, della serie d’avventura Uncharted e del dittico The Last Of Us. È proprio per delle scelte di sceneggiatura di The Last Of Us parte 2 (la cui trasposizione in serie tv è uscita ad inizio di quest’anno) che determinate comunità di videogiocatori hanno iniziato a intraprendere una campagna denigratoria e diffamatoria contro Naughty Dog, bollandola come politicamente schierata e Woke, polarizzando profondamente pubblico e critica.

Di esempi se ne potrebbero fare molti ma The Last of Us, per la maturità registica e la potenza dei temi trattati non rimane un mero prodotto d’intrattenimento ma può essere considerato a tutti gli effetti come un videogame come forma d’arte, arte che rimane al gusto personale soggettiva, certo, ma pur sempre arte.

Ed è con questo concetto esemplificativo che andiamo a parlare di Death Stranding 2 – On the Beach, del maestro Hideo Kojima.
Per chi non lo conoscesse, Hideo Kojima è fra i primi Game Designer esistenti, quando ancora il termine game Designer non esisteva. Fin dai suoi primi lavori, Kojima ha percepito il videogame non come un mero intrattenimento ma come un’esperienza ragionata, dove si potesse dare un messaggio, sperimentare nuovi approcci e soprattutto costruire una trama articolata. Nel 1987, per la piattaforma MSX, sotto la direzione di Konami, arriva Metal Gear, il primo gioco che introduce meccaniche Stealth. La trama è all’apparenza semplice, una compagnia mercenaria, situata nello stato fortezza di Outer Heaven ha creato un carro armato bipede (un mech, o robottone) in grado di lanciare testate missilistiche da e in qualsiasi parte del globo, l’arma definitiva. Lo scopo del protagonista, nome in codice Snake, è infiltrarsi in Outer Heaven e distruggere l’arma.

Attraverso esplorazione, nemici sopra le righe, colpi di scena e morti eccellenti un semplice gioco di tipo militaresco diventa un’esperienza ancora oggi avvincente ed unica. Nasce quindi una saga che fino al 2015 ha rivoluzionato attraverso ogni suo sequel e prequel il mondo videoludico, portando tematiche importanti sulla cultura delle armi, sul ruolo dell’individuo nel mondo, sul pericolo della tecnologia (è stato assolutamente profetico Sons Of Liberty nel suo trattare il tema della manipolazione delle informazioni e dell’intelligenza artificiale . Giocarlo oggi è sconvolgente ) identità e in generale senso dellla vita e della società.

Le opere di Kojima sono profondamente esistenzialiste, senza nulla togliere all’aspetto di intrattenimento con un gameplay sempre immediato e coinvolgente e una dose di umorismo surreale. Dopo il suo divorzio nel 2015 dalla storica compagnia Konami per divergenze creative che hanno portato alla cancellazione del progetto P.T. e all’uscita di The Phantom Pain (all’oggi l’ultimo capitolo della saga di Metal Gear, una cruda e impietosa storia di vendetta e follia ) con quasi metà del gioco mancante, Kojima fonda il suo studio indipendente entrando in partnership con Sony e nel 2019 pubblica Death Stranding.
Death Stranding è un titolo di difficile catalogazione e per comprenderlo bisogna parlare della trama.

Il giocatore interpreta Sam (Norman Reedus) un corriere affetto da aptofobia incapace di morire, di raggiungere la spiaggia, il suo aldilà. Sam cresce e vive in un mondo dove è in atto la sesta estinzione di massa del pianeta, il Death Stranding, che porterá l’umanità e tutti gli esseri viventi all’oblio. È un processo inevitabile. L’ambiente è invivibile, la cronopioggia corrode tutti gli elementi e accelera in maniera fulminea l’invecchiamento e la morte di tutte le forme di vita. Masse di catrame compaiono ovunque facendo emergere le CA, le creature arenate, esseri scissi fra Ha e Ka, termini egizi che definiscono corpo e anima. Il contatto con queste creature provoca enormi esplosioni che devastano il mondo di gioco creando enormi voragini. Una piaga insanabile da cui l’umanità non ha altra scelta che proteggersi vivendo in bunker sotterranei fortificati.

Un’umanitaria frammentata, isolata e totalmente all’oscuro di tutto. Sam verrà reclutato per unire queste comunità viaggiando per l’America con un feto all’interno di una capsula, un BB, e connettendole ad una rete di nuova concezione che sfrutta un ponte con l’aldilà, con il regno dell’anima tangibile a causa del death Stranding. Quindi non guerre da affrontare (anche se i nemici sul suo cammino sono tanti in primis la folle nemesi Higgs, interpretato dal mai troppo celebrato Troy Baker o Cliff Hunger , interpretato da Mads Mikkelsen) ma un’umanita da ripristinare, un mondo da rendere unito per trovare collettivamente un modo per sopravvivere all’estinzione di massa. Death Stranding ci vede camminare, portando carichi pesanti, affrontando clima impietoso e mostruosità uscite dal catrame e prendendoci cura di BB, rinominato Lou durante il gioco, un infante non nato ma senziente che diventerà non solo compagno di viaggio.

A missione completa e non senza momenti di catastrofica epicità e di commovente intimitá Sam troverà la fiducia nel prossimo e supererà le sue fobie, per poi iniziare una nuova vita crescendo Lou fuori dalla rete da lui creata che ha portato progresso e sopravvivenza ma anche troppe ombre.
Death Stranding 2: on the Beach (la spiaggia si riferisce all’aldilà) riprende Sam 11 mesi dopo gli eventi del capitolo precedente . L’America è unificata sotto le UCA (United cities of America), le comunicazioni e i trasporti sono totalmente automatizzate e affidate all’intelligenza artificiale. Sam si è ritirato ed è padre a tempo pieno. Tutto sembra andare bene ma le UCA non si sono fermate, voglio espandere la loro rete oltre i confini per unire altri continenti, utilizzando aziende e corrieri extragovernativi, (il parallelo a tesla e Amazon è palese) e Sam viene reclutato suo malgrado un’altra volta. Il death stranding non è stato evitato, solo inevitabilmente posticipato.

Già dopo 17 ore di gioco fare qualsiasi spoiler è criminale ma oltre ad un gameplay migliorato, più vario e dinamico abbiamo un intreccio ancor più crudele e attuale del primo capitolo (che aveva anticipato di un anno il mondo del Covid). Le tematiche sono tante: fanatismo, tecnologia depersonalizzante, cultura delle armi, rancore, lutto e ricerca di un perché alla propria esistenza. Death Stranding 2 , ancor più del predecessore, con i suoi scenari mozzafiato, i suoi dialoghi con un cast d’eccezione (tornano Lea Seydoux, Margaret Qualley, Guillermo del Toro, Nicholas Winding Refn e Troy Baker e si aggiungono Jonathan Roumie, il premio Oscar George Miller, Elle Fanning, il nostro Luca Marinelli e molti altri) che portano sempre spunti di riflessione e il suo gameplay che ci mette sempre alla prova con continue sorprese ed evoluzioni è un’esperienza di tipo profondamente interiore che tocca corde molto sensibili nell’animo umano. Videogame come forma d’arte, non apprezzabile da chi non è in grado di mettere in discussione le proprie convinzioni relegate al videogame di genere o da popcorn (eh si è il caso di traslare queste diciture cinematografiche al mondo del videogame) ne di chi vede il videogame come mero intrattenimento o competizione online.

L’arte si sa non è oggettiva ma è innegabile che a livello di tematiche e di concept l’ultima opera di Kojima porti un messaggio che è più attuale che mai e andrebbe quanto meno ascoltato da un’umanitá che sta scegliendo sempre più la via del bastone per allontanare l’altro che la corda per unirci.