De Clizibus

Cunizza da Romano e il posto in Paradiso che le riservò Dante Alighieri

In occasione della settimana del Dantedì, la festa nazionale istituita nel 2020 per celebrare il Sommo Poeta, voglio raccontarvi la storia controversa di un personaggio solitamente poco conosciuto e ricordato, anche negli ambienti letterari.

Purtroppo i personaggi femminili nella Commedia sono soltanto cinque, o meglio, escluse Beatrice e Matelda che incarnano funzioni allegoriche, sono solo cinque le donne a cui Dante concede la parola nell’intero poema. Una di queste, sicuramente la meno nota, è Cunizza da Romano, la nobildonna veneta che il fiorentino incontra nel IV canto del Paradiso, fra gli spiriti amanti del terzo cielo, quello di Venere “il bel pianeta che d’amar conforta”. Sul suo conto si sa ben poco e il suo racconto non è sicuramente appassionante come quella di Francesca o di Pia dei Tolomei, ma la sua vita è stata decisamente turbolenta e avventurosa tanto quanto quelle delle altre protagoniste che l’hanno preceduta. Anche lei, come Piccarda Donati ad esempio, venne usata come pedina politica dal fratello despota Ezzelino III (condannato all’Inferno tra i violenti contro il prossimo) e costretta a sposarsi nel 1222, poco più che ventenne, con Rizzardo di San Bonifacio, signore di Verona. Matrimonio che evidentemente fallì nel suo intento se, dopo appena pochi anni, il fratello volle riportarla con la forza alla casa paterna, ordinandone il rapimento al trovatore di corte Sordello da Goito (già incontrato da Dante nell’Antipurgatorio!) con il quale nacque una relazione fedifraga seguita da una lunga serie di matrimoni (tre/quattro) e infiniti amanti che resero la bella Cunizza molto famosa nella cronaca rosa del tempo! Come ha fatto dunque ad aggiudicarsi il biglietto per il Paradiso una donna così libera ed emancipata, decisamente scandalosa per i costumi dell’epoca? Ebbene, la risposta è duplice. Innanzitutto, come racconta ella stessa, in tarda età, dopo il declino politico dei Da Romano, si ritirò a Firenze (dove molto probabilmente il poeta ebbe modo di incontrarla) intraprendendo un percorso di espiazione fatto di preghiere e opere caritatevoli.

In secondo luogo c’è da fare una considerazione più ampia sulle diverse accezioni dantesche dell’amore per capire come mai, a differenza di una ben più morigerata Francesca, Cunizza sia stata graziata con la salvezza eterna. L’amore carnale dispensato generosamente da questa nobile trevigiana, essendo fine a se stesso, privo di implicazioni sentimentali e unicamente finalizzato al piacere dei sensi, è infatti ritenuto paradossalmente perdonabile, meno grave rispetto a quello totalizzante di Francesca, la quale, così come gli altri peccatori di “incontinenza”, assolutizza qualcosa che in sé è relativo, collocandolo al posto di Dio. Facendo dell’amore umano, cioè di Paolo, il suo idolo e il suo tutto, senza peraltro mai pentirsene (“Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte,/che, come vedi, ancor non m’abbandona”), Francesca diventa blasfema e, di conseguenza, imperdonabile per la legge morale del Medioevo.

Ovviamente la scelta del Sommo di inserire questo personaggio ambiguo nel Paradiso è stata dibattuta e ampiamente critica dai commentatori sin dai tempi più antichi, ma ad oggi i più, a partire da Ugo Foscolo, concordano nel ritenerlo un espediente unicamente finalizzato a corroborare personali opinioni storico-politiche, strumento per profetizzare la solenne sconfitta dei guelfi locali (“ma tosto fia che Padova al palude/ cangera l’acqua che Vincenza bagna,/per essere al dover le genti crude”, probabile allusione alla vittoria dei Ghibellini di Vicenza, aiutati da Cangrande della Scala, sui Guelfi padovani nella battaglia del 1314) e per esaltare la potente famiglia dei da Romano, fieri ghibellini vicini a Federico II e precursori dell’amico-protettore Cangrande della Scala, in opposizione al guelfismo assetato di vendetta che dilagò nelle città venete dopo la caduta della casata scaligera filoimperiale. Tesi avvalorata dalla scarsa descrizione della donna e soprattutto dal fugace approfondimento della sua vicenda privata, liquidata con un approssimativo mea culpa privo di spiegazioni che, a suo dire, in molti non sarebbero stati in grado di comprendere:

“Cunizza fui chiamata, e qui refulgo/perché mi vinse il lume d’esta stella;/ma lietamente a me medesma indulgo/la cagion di mia sorte, e non mi noia;/che parria forse forte al vostro vulgo”.