Cronaca

Carceri più “umane” generano benessere anche per gli agenti: i risultati dello studio dell’università milanese

Finalmente a dirlo non è un partito politico, o una associazione, ma uno studio scientifico condotta da alcuni ricercatori di una delle università più prestigiose d’Italia e d’Europa: Carceri più umane generano maggiore benessere. Anche per la polizia penitenziaria. Lo studio condotto dal dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, in cooperazione con la direzione generale della formazione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero, ha reso noti i dati di una ricerca. Un carcere più umano ottimizza il benessere professionale ed emotivo del personale di Polizia penitenziaria, e al contempo è necessario un bilanciamento tra sicurezza e trattamento. Questi e altri rappresentano gli esiti emersi dallo studio condotto da una équipe di ricercatori e docenti.

La ricerca, pubblicata sulla rivista “Journal of Criminal Psychology”, ha il primato in termini di coinvolgimento di un numero elevato di appartenenti al Corpo, di polizia penitenziaria ovvero 1.080 unità, tra agenti, sovrintendenti e ispettori. “Ha un bacino molto grande rispetto agli studi precedenti legati al benessere organizzativo in carcere”, ha spiegato Iolanda Tortù, neo-commissaria all’Ipm Beccaria di Milano, la quale ha contribuito a differenti step dello studio. La ricerca, che segna il primato su base nazionale, è stata realizzata in collaborazione con differenti scuole di formazione della Penitenziaria, raccogliendo l’adesione di molti lavoratori che svolgono turni in carcere.

L’esperimento: I membri al Corpo hanno fornito la propria disponibilità a un esperimento, come riportato da Tallarico su “GNews”: distinti in due gruppi, al primo è stato fatto leggere un contributo scritto su un penitenziario che adottava protocolli più supportivi verso i detenuti, con una sorveglianza dinamica e celle aperte, mentre all’altro, un articolo che raccontava di un carcere con celle chiuse e sorveglianza più rigoroso. In seguito, è stato somministrato un questionario in ordine a situazioni-tipo durante il turno, come, ad esempio, un carcerato che domanda ascolto.

Gli esiti: La ricerca ha rilevato l’importanza di un bilanciamento tra le due “anime” del lavoro della Penitenziaria: nella finalità di evitare il burnout, non bisogna né nutrire un’attenzione spasmodica per la sicurezza dell’istituto, in quanto conduce ad atteggiamenti ostili verso i detenuti e, di riflesso, a un clima lavorativo di fastidio; bensì neppure, al contrario, risultare esageratamente focalizzati sull’obiettivo rieducativo. A ciò si aggiunga che la ricerca propone, da un lato, di incoraggiare una cultura penitenziaria non polarizzante e supportiva verso la popolazione detenuta, mentre, dall’altro, è risultato fondamentale intervenire sullo step di formazione della Polizia penitenziaria, al fine di supportare l’organico a gestire al meglio la vicinanza emotiva con i detenuti.

“Abbiamo notato – ha dichiarato Marco Marinucci, psicologo sociale e primo firmatario della ricerca – che chi aveva letto l’articolo più ‘aperto’ e supportivo immaginava che avrebbe aiutato di più il detenuto in difficoltà, con ripercussioni benefiche su come pensava si sarebbe sentito a fine turno: maggiore benessere, e un sentimento di realizzazione”.

In sostanza, la percezione di un ambiente lavorativo orientato e intento alle esigenze dei reclusi fa da trigger a un circuito virtuoso. “Ad esempio, vedere colleghi che si fermano ad ascoltare i detenuti fa sì che la persona in servizio tenda a pensare che sia più giusto rieducare, che assumere un atteggiamento troppo punitivo”, ha chiosato Marinucci.

Secondo la commissaria Tortù, “lo studio può essere utile anche per i decisori, perché fa emergere che la relazione con il detenuto è più fonte di benessere che di malessere, quando è costruita in maniera adeguata. E cioè quando la o il collega si trova nella posizione giusta tra sicurezza e trattamento”.

“L’essere troppo ‘securitari’ o troppo ‘trattamentali’, porta comunque a delle criticità a livello psichico”, continua ancora Tortù. “Anche quando si è troppo concentrati sul trattamento – prosegue – si può restare facilmente delusi. Pensiamo a una persona detenuta che tradisce le nostre aspettative di rieducazione; questo può portare a un esaurimento emotivo”.

(Fonte Altalex e Ministero della Giustizia)