Alla corte di “Re pace” abbiamo capito una cosa: invadi e ottieni, i vari Putin potranno arrivare ovunque
Alla Casa Bianca, ieri 18 agosto, è andata in scena la grande rappresentazione della pace. Volodymyr Zelensky, circondato da Trump e dai leader europei, ha portato con sé il volto stanco di un Paese che combatte da più di tre anni. L’ospite d’onore, però, non era lui. L’ospite invisibile, quello che aleggiava su ogni frase, era Vladimir Putin. Trump si è proposto come “Re pace”, arbitro di una trattativa che dovrebbe chiudere la guerra. Ma il copione, se lo leggiamo fino in fondo, è amaro: la pace che si sta immaginando non è quella della giustizia, bensì quella della resa mascherata. Perché se per fermare i bombardamenti dovremo riconoscere a Putin dei territori che non gli appartengono, allora il messaggio al mondo è chiaro: invadi, massacra, resisti abbastanza a lungo, e alla fine qualcosa ti resterà in mano.
È una lezione pericolosa. Non solo per l’Ucraina, ma per ogni democrazia che vive accanto a un autocrate. Oggi tocca a Kiev. Domani a chi? I vari “Putin” che abitano il pianeta hanno assistito allo spettacolo di Washington: hanno visto che la comunità internazionale, pur indignata, alla fine si piega al fatto compiuto. Zelensky ha parlato con la forza di chi non vuole cedere, ma i sorrisi diplomatici e le frasi di circostanza hanno reso l’atmosfera surreale. Il rischio è che il sangue versato a Bucha, a Mariupol, a Kharkiv diventi merce di scambio. Come se la sofferenza di milioni di persone potesse essere barattata per qualche tavolo negoziale in più.
Alla corte di “Re pace”, Trump si erge a garante di un equilibrio che però rischia di legittimare la violenza. Non è pace, è un premio all’aggressore. Ed è questo che fa più paura. Perché se il mondo accetta che chi invade ottenga, allora i confini non sono più linee di diritto, ma obiettivi di conquista.
Eppure, in questo scenario, c’è una sola parte per cui io tifo: quei bambini ucraini rapiti e deportati, quelle famiglie spezzate, dilaniate dalla violenza russa. È a loro che va il mio pensiero. La loro vita, la loro libertà, la loro rinascita devono essere la vera vittoria. Perché l’Ucraina non sarà soltanto un Paese da ricostruire: sarà un Paese vivo, colorato, rinato dalle macerie di una violenza ingiustificata.
Un’ultima nota su Trump: dolente o nolente, giusto o sbagliato, bisogna riconoscergli una cosa. Fa quello che dice. Non è poco, in un mondo di promesse che evaporano. Ma la sua coerenza resta quella di un imprenditore che agisce seguendo interessi concreti, non ideali universali. È qui che nasce l’ambiguità: se da un lato garantisce serietà d’azione, dall’altro resta il dubbio che la pace, più che giusta, potrebbe rivelarsi soltanto conveniente. Perché sì, è bello finalmente vedere protagonisti che parlano di fermare il massacro: ogni vita salvata è un passo verso la vittoria della dignità. Ma guai a confondere questo con il trionfo di Putin. La prima vittoria sarebbe ogni bambino restituito alla sua casa, ogni famiglia che sopravvive. La seconda, quella che rischieremmo davvero di consegnare, sarebbe proprio a chi questa guerra l’ha iniziata. Perché usare il condizionale? Non sarebbe. Sarà. Lo è già. E noi staremo a guardare. Mi chiedo e vi chiedo: e dopo? Alla corte di “Re pace” abbiamo capito una cosa: se questo è il modello, i vari Putin potranno arrivare ovunque.