Cronaca

La testimonianza di Guido, dalla tossicodipendenza alla rinascita, ora è uno stimato dirigente in ambito sanitario

Negli anni Ottanta, l’eroina attraversava l’Italia come un’epidemia silenziosa. Falcidiando vite e famiglia. Sono gli anni in cui Guido, giovane toscano, all’epoca poco più che ventenne, è finito nel vortice della dipendenza. La sua vita è stata scandita dalle dosi, dalla paura e dalla solitudine. E come tanti aveva smesso di credere in una via d’uscita. Ma Guido ce l’ha fatta. Si è lasciato alle spalle la dipendenza e oggi è un dirigente sanitario impegnato nel ripensare proprio quelle politiche che un tempo aveva subito.

Il punto di svolta è arrivato quando ha deciso di entrare nella comunità di San Patrignano. Quando la sua vita sembrava un circolo vizioso senza via di uscita. Il baratro era vicino. Non è stato costretto, né accompagnato da famigliari o operatori sociali. È stata una decisione autonoma, forse la prima dopo molto tempo. Figlia di una sofferenza interiore, che sempre più incombeva. Guido non aveva più una vita, era succube dalle sostanze. Viveva in funzione di quelle. Che lo stavano facendo rimanere solo. Senza un futuro. Senza più rapporti sociali. Entrare lì non significava semplicemente “disintossicarsi”. Significava sottoscrivere un patto di cambiamento radicale: rispettare regole, condividere il quotidiano con altri ragazzi in lotta, confrontarsi ogni giorno con se stesso. Ma Guido, tutto questo, non lo ha mai vissuto come una costrizione.
“Nessuno mi ha mai sfiorato con un dito”, dirà anni dopo, rievocando un ambiente che, pur esigente, non era né punitivo né repressivo. San Patrignano, per lui, è stata una scuola: gli ha insegnato il lavoro, la responsabilità, la fiducia. Gli ha restituito una vita.

Negli anni successivi, Guido ha costruito una carriera nel settore sanitario. Ma proprio da quella posizione, oggi lancia un’allerta: il sistema italiano delle dipendenze rischia di essere rimasto indietro di decenni. Secondo la sua esperienza, l’idea dominante è ancora quella che vede la tossicodipendenza come una malattia cronica da “contenere”, più che una condizione da trasformare. In altre parole: farmaci sostitutivi, ma poca attenzione al percorso umano, psicologico e sociale del recupero. “Oggi, l’80% dei trattamenti pubblici per le dipendenze si basa su terapie farmacologiche”, osserva. Ma, secondo lui, questa strada può trasformarsi in una nuova forma di dipendenza, meno visibile ma altrettanto invasiva. Per Guido, è fondamentale restituire ai pazienti la possibilità concreta di cambiare.

Il modello proposto da Guido si allontana sia dal proibizionismo rigido che dal medicalismo passivo. Chiede un ripensamento più ampio, che metta al centro la persona, il suo ambiente, i suoi legami. Secondo lui, le dipendenze vanno affrontate come processi complessi: non bastano pillole o protocolli, servono comunità, lavoro, supporto relazionale. Servono percorsi che portino le persone a reinventarsi, non solo a “gestirsi”. Il problema, dice, è che molti servizi oggi non hanno gli strumenti — o il coraggio — per proporre questo tipo di trasformazione.

Oggi non ha dimenticato il passato. Lo custodisce come un promemoria. Ha scelto di restare nel campo del disagio, ma dalla parte di chi offre risposte. La sua esperienza, personale e professionale, è diventata un punto di riferimento per chi cerca un’alternativa al modello attuale. La sua storia dimostra che uscire dalla tossicodipendenza è possibile. Che dietro ogni etichetta clinica c’è una persona. E che anche nei momenti più oscuri, la possibilità di cambiare esiste. Una bella storia di rilancio personale. Un percorso di rinascita vera e propria.

 

C. N.