“ZeroZeroZero”, la serie tv da rivedere per capire le sempiterne rotte della cocaina dall’America Latina alla Calabria
Cocaina, la droga più diffusa al mondo, simbolo di ricchezza, di sballo senza freni, di eccesso. La cocaina ha ispirato centinaia di media da “Scarface” a “Grand Theft Auto”, da “Blow” a “Smetto quando voglio”. La cocaina è così presente nei prodotti di finzione che acquista agli occhi dello spettatore una sorta di legalità, viene legittimata quando il consumatore non è visto come un ultimo, un rifiuto della società in stile “Christiane F.”. “Tony Montana”, “Jordan Belford”, “Raoul Duke”, “Henry Hill” e molti altri tossici cinematografici hanno acquistato un’aura mitica nel loro eccesso tanto da diventare modelli. Modelli per camorristi, narcotrafficanti messicani e adolescenti della buona borghesia, non fa differenza. La cocaina è spesso protetta da un’aura che la rende inarrestabile.
Sappiamo che viene prodotta in America Latina, passa via nave in tonnellate, arriva in Africa e viene trasferita principalmente nel porto di Gioia Tauro, dalla Calabria poi viene diffusa in tutta Europa e oltre, fino ad arrivare al cliente finale, tagliata più e più volte, steccata in grammi. I clienti sono imprenditori, politici, personaggi dello spettacolo, escort, ristoratori, giovani adolescenti, casalinghe annoiate. La tratta è sempre quella, dalla notte dei tempi. Eppure non si ferma mai, non c’è modo di bloccare il flusso, fermare il traffico.
Esiste un termine nell’analisi narrativa che si chiama “Plot Armor” (traducibile all’incirca con armatura narrativa ) ovvero quando un personaggio, per la sua essenzialità riesce a scampare a situazioni di morte certa che avrebbero, nell’intreccio narrativo, fatto fuori altri personaggi. Un chiaro esempio è Daenerys Targaryen di “Game Of Thrones”.
La cocaina, la farina triplo Zero, dispone esattamente di una plot armor, non importa cosa possa succedere. La cocaina continuerà a scorrere.
Ed è proprio di questo che “ZeroZeroZero”, miniserie del 2020 di Sky Atlantic ideata da Stefano Sollima, Leonardo Fasoli e Mauricio Katz e tratta dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano, parla, di come la Cocaina possa attraversare, nascosta in barattoli di peperoncini Jalapeño mezzo mondo e riuscire a finire nelle narici di tre generazioni di tossicodipendenti che tossicodipendenti non si sentono grazie alla silenziosa legittimazione mediatica della bamba (complici anche influencer e trasmissioni di dubbio gusto).
Ma “ZeroZeroZero” non ha interesse a mostrarci il consumatore finale, lo sballato. Quello non ci interessa. La stessa cocaina viene vista solo in due scene degli 8 episodi, quando viene preparata in Messico a inizio serie e quando viene spacchettata nel finale in Calabria. “ZeroZeroZero” ci mostra ciò che non vediamo mai, ovvero il percorso della droga e le vite che, per essa, hanno venduto l’anima al diavolo.
La storia segue tre linee narrative che si influenzano l’una con le altre. In Messico alla partenza del carico abbiamo Manuel Contreras, devoto religioso, ottimo militare dell’esercito messicano e doppiogiochista. Un disumano massacratore che creerà un battaglione per sovvertire i vertici del narcotraffico messicano. Similmente in Calabria, all’arrivo abbiamo Stefano La Piana, ‘ndranghetista intento ad ordire una guerra contro il nonno e boss don Minu, figura mefistofelica, perennemente nascosta in bunker e case diroccate, cieca da un occhio ma vicina ad una sorta di onnipotenza.
E in mezzo? Abbiamo i Lynwood. Ricchi americani, inprenditori nel campo della logistica, quello che si chiama Freight Forwarding, il trasporto via nave. I Lynwood sono persone per bene, pulitissimi americani dell’alta borghesia. Il loro scopo è far sì che tutto fili liscio fra la parte messicana, piagata da lotte per il controllo del narcotraffico e gestita da spietati e folli signori della droga, e la parte Calabrese, composta da oscuri criminali dalle consuetudini inviolabili ed arcaiche, con ritualità di tipo esoterico e lucida spietatezza. E fra i due fronti non c’e solo l’oceano ma un continente nel caos e nell’anarchia, l’Africa.
I Lynwood sono una figura essenziale nel traffico di cocaina, dimenticatevi gli aerei charter dei Cocaine Cowboys Willy Falcon e Sal Magluta, o i panetti di eroina nascosta nelle bare dei caduti in Vietnam dell’American Gangster Lucas, quella è roba da poco, per di più edulcorata da Hollywood. Per spostare le tonnellate necessarie di farina triplo zero utili a fornire un continente come l’Europa servono dei mediatori. Il mediatore, il broker, è il signor Lynwood, un imprenditore qualunque che ha capitali, contatti nei porti e nelle dogane, corsie preferenziali tanto è il suo giro di affari, e magari pure una nave cargo di proprietà. Il suo scopo è far prelevare il carico dal lato messicano, trasportarlo via mare (con eventuali scali strategici) fino al porto di Gioia Tauro, scalo merci marittime in mano alla ‘ndrangheta che si occuperà di prelevare il container e pagare il mediatore.
Funziona così oggi come negli anni 70. Il sistema non è mai cambiato di una virgola e la tratta è sempre la stessa. E quindi quanto difficile è fermarlo?
Ed è qui che “ZeroZeroZero” si differenzia dalle altre produzioni sulla cocaina ed è per questo di visione obbligatoria. Nel suo crudo realismo ci mostra la storia di un carico il cui trasporto, per usare un eufemismo, ha avuto delle complicazioni. Il carico poteva essere fermato al primo episodio, al secondo, al terzo. Fino all’ottavo c’erano i presupposti per cui il carico poteva essere fermato. Fra il Messico dei Narcos e la Calabria di don Minu c’è l’esercito, ci sono ammutinamenti, c’è il corrotto governo di Dakar, ci sono bande di Jihadisti intente a combattere la guerra santa, ci sono faide familiari e anche malattie terminali. Ma nulla ferma il carico, al massimo lo rallenta, ne devia il flusso. Ma basta privarsi di qualche chilo di farina e il container prosegue. Perché per i protagonisti della nostra storia, la cocaina non è un prodotto ma un qualcosa di vitale. Riempie le tasche, causa massacri, trasforma giovani disagiati in feroci assassini, trasforma fanatici religiosi in ragionevoli collaboratori, spinge i padri a massacrare i figli con fredde lame a serramanico. Non è stato facile, in otto episodi, contare la quantità di morti che un singolo carico nel suo viaggio ha causato. Troppi da contare e troppo cruenti, troppo brutali. Decine in scena, forse centinaia contando le morti non mostrate.
Se non ci fosse un libro di Saviano, se non ci fossero inchieste e atti processuali potrebbe trattarsi di una fiction incredibile, ma purtroppo quello che vediamo sullo schermo è tanto più vicino alla realtà di quanto vorremmo sperare. Basta sostituire il nome Lynwood con un nome di un mediatore a caso, ad esempio Roberto Pannunzi, soprannominato dalle autorità colombiane il Pablo Escobar italiano. Un uomo in grado di poter contrattare da pari sia con il cartello di Medellín che con la ‘ndrangheta (lui era legato alla ‘ndrina Macrì di Siderno.)
Ma arrestare Pannunzi non serve a nulla. Come non servirebbe arrestare i Lynwood o don Minu o massacrare l’intero cartello messicano e sostituirlo con un branco di fanatici paramilitari. La farina triplo zero continuerà a scorrere, nonostante i morti, nonostante gli arresti nonostante il pericolo e la violenza. L’umano è subordinato alla droga, e la droga, finché ci sarà richiesta non smetterà mai di arrivare, riducendo a brandelli le vite di chi si trova sul suo cammino, che sia uno spietato spacciatore, una giovane moglie o una innocente ragazzina colpita da un colpo di striscio di un’arma da fuoco. “L’unico prodotto la cui offerta genera la domanda”, narra la voce fuori campo di Narcos.
Il senso di nausea che si prova guardando le scene di “ZeroZeroZero” è pari all’importanza di questo prodotto televisivo che fa davvero aprire gli occhi su una sostanza che continua a raccogliere clienti o addirittura fedelissimi. Insomma se fosse una canzone la coca sarebbe senza alcun dubbio “The song remains the same” dei Led Zeppelin.