Cronaca

Risarcito con 200 mila euro il figlio di un internato in un lager nazista per l’ingiusta detenzione subita

Risarcito il figlio di un detenuto dei campi di lavoro forzati nazisti, non perché morì nel lager ma per ingiusta detenzione. Circa 175.500 euro, più spese legali, dovranno essere pagati al figlio di un soldato italiano deportato nei campi di lavoro durante il nazifascismo, come detto, non perché perse la vita ma perché fu ingiustamente recluso. Lo ha stabilito il Tribunale di Genova con una sentenza storica, l’uomo ora potrà chiedere l’accesso al fondo governativo del Mef per le vittime dei crimini di guerra compiuti dal Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale.

La storia.
Porto di La Spezia, 1943. Un giovane soldato italiano di 19 anni sta per partire quando lui e i suoi compagni vengono arrestati dai nazifascisti. Viene subito deportato nel campo di prigionia di Mersburg Stalag VII, poi trasferito nel campo di lavoro Mallak – Commando 3615.

A differenza dei lager come Mauthausen, dove venivano sterminati ebrei, rom e omosessuali, i campi di lavoro forzato erano luoghi in cui si moriva lentamente per fame, malattia e fatica. Come riporta la sentenza del Tribunale di Genova, il ragazzo rimase prigioniero per 585 giorni, fino al 1° maggio 1945, giorno della sua liberazione.
Tornato in Italia, il militare si costruisce una vita, ha un figlio e muore nel 1962.

Il caso.
Sessant’anni dopo, nel 2024, il figlio del soldato si rivolge al Tribunale della Spezia, che trasferisce la causa a Genova, chiedendo un risarcimento per i danni subiti dal padre, vittima del nazifascismo. Prima dell’istituzione del fondo governativo non avrebbe potuto chiedere risarcimento.

Sarà poi il Tribunale di Genova, attraverso il giudice Pasquale Grasso, a riconoscere che quel risarcimento è dovuto non perché il padre sia morto nei campi, ma perché fu ingiustamente detenuto in condizioni disumane. Il figlio acquisisce questo diritto per iure hereditatis, cioè per eredità diretta dei diritti del padre.

Il giudice ha stabilito un risarcimento di 175.500 euro, calcolato su una base di 235 euro al giorno per ingiusta detenzione, aumentata a 300 euro al giorno in considerazione del lavoro forzato, della malnutrizione e delle condizioni estreme a cui fu sottoposto il giovane militare, come per un qualunque altro caso di ingiusta detenzione in Italia.

La condanna formale è stata emessa nei confronti della Repubblica Federale di Germania, ma sarà l’Italia a effettuare il pagamento. Questo per via degli accordi firmati nel 1962, con cui la Germania versò 40 milioni di marchi all’Italia a saldo dei danni patrimoniali (beni, edifici, infrastrutture) provocati dalla guerra, ma non dei danni non patrimoniali, cioè morali, subiti dalle singole vittime.

Nel 2022, sotto il governo Draghi, viene istituito il Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità, con una dotazione iniziale di 20 milioni di euro, gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Proprio questo fondo consente oggi a chi vince una causa di presentare domanda di rimborso.

Nonostante la sentenza favorevole, il figlio del soldato non ha ancora ricevuto la somma: ora, grazie alla decisione del tribunale, potrà inoltrare la richiesta ufficiale al Mef per ottenere il risarcimento.

Questo caso, come altri, riapre ferite mai chiuse e pone interrogativi sulla giustizia tardiva. Molti di coloro che presentano oggi queste richieste hanno un’età media di oltre 80 anni. In alcuni casi saranno i nipoti o altri parenti a subentrare, sempre per iure hereditatis. Ma l’intento originario era che i familiari più vicini alle vittime potessero ricevere almeno in parte un ristoro per ciò che hanno subito. Il rischio è che le risorse ci siano, ma arrivino troppo tardi per gli eredi molto anziani ma ancora in vita. Ne usufruiranno in molti casi nipoti e pro nipoti.

La memoria storica non dovrebbe mai restare intrappolata tra carte bollate e lungaggini burocratiche. La giustizia non può restituire ciò che è stato tolto, ma può e deve riconoscerlo. Anche dopo decenni. La speranza è che il Mef acceleri le procedure di pagamento in caso di sentenza di condanna, requisito indispensabile per poter accedere al fondo governativo.