Giornalista ucraina torturata e uccisa dai russi che riconsegnano il corpo ma senza alcuni organi per mascherare le cause della morte e i segni delle violenze subite prima morire. L’ennesima vittima di una guerra atroce e senza senso tra due popoli fratelli fino a qualche anno fa. Una follia che va fermata ad ogni costo, come l’inferno di Gaza, e altri orrori. «Vika era così. Capace di farti delle scenate pazzesche se non le mettevi il pezzo o se glielo cambiavi. Spariva anche per settimane, poi tornava con una scatola di dolci. Come quella di cioccolatini Raffaello che è rimasta sulla mia scrivania dopo che l’hanno presa». Sevgil Musaieva tiene la voce ferma mentre racconta al Corriere della Sera, di cui è stata ospite nel 2022, in occasione del premio Cutuli. Ma è stata lei, caporedattrice di Ukrainska Pravda, tra le prime a ricevere la notizia che quel corpo scambiato dai russi, tornato indietro senza organi per nascondere i segni delle torture era il cadavere di una delle sue reporter più brave.
Ventisette anni, appassionata di boxe, grande bevitrice di caffè, spigolosa, tosta come poche, col fisico minuto e la volontà d’acciaio, Viktoriia Roshchyna, detta Vika, viene catturata una prima volta dall’Fsb nel marzo 2022 mentre lascia Berdiansk in direzione di Mariupol. Viene trattenuta per 10 giorni e poi liberata dopo essere stata costretta a registrare un video in cui dichiara che le forze russe le hanno salvato la vita. «Riposati, riprenditi», le consigliano i colleghi quando torna dimagrita e provata. Ma lei, no. Lei deve andare dove nessuno va, deve dare voce agli ucraini che vivono sotto occupazione. Una missione per lei che mette il suo lavoro davanti a ogni cosa. E così, nell’estate del 2023, si imbarca in quella che è una delle missioni più pericolose da fare per un giornalista ucraino: andare dietro le linee nemiche. Hromadske, il suo principale datore di lavoro, smette di collaborare con lei: troppo rischioso quello che fa. «Le avevo detto anche io di non farlo», spiega ancora Musaieva. «Ma lei mi rispondeva: “Devo andare perché sono l’unica giornalista che ci va”. E poi mi mandava una nuova bozza. Era stata quattro volte nei territori occupati». Nemmeno le suppliche di Volodymyr, padre veterano della guerra sovietica in Afghanistan che ora non si rassegna alla sua morte e chiede che venga ripetuto il test del Dna, la convincono. Poco prima di partire per l’ultima missione passa da Kryviy Rih, la città natale del presidente Volodymyr Zelensky, e gli dice «Vado».
Roshchyna lascia l’Ucraina per l’ultima volta il 25 luglio 2023. Alle 14:09 di quel giorno il suo telefono si collega a una rete mobile polacca. Dalla Polonia, attraversa la Lituania e passa in Lettonia. E poi in Russia, attraverso il valico di frontiera di Ludonka, secondo quanto ricostruito l’inchiesta collettiva realizzata da Forbidden Stories, che ha ricostruito tutto l’accaduto e la prigionia attraverso decine di interviste e fonti. Viaggia per 1.600 chilometri, fino a Melitopol e poi Enerhodar, la città dormitorio vicino alla centrale elettrica di Zaporizhia, dove affitta un appartamento. Paga in anticipo per tre notti e dopo aver lasciato lo zaino, esce alla ricerca di notizie. Usa diversi cellulari per proteggere le fonti. Scrive file che si auto cancellano dopo che li ha inviati al desk. Sa quello che fa. Il 3 agosto suo padre si accorge che non è più connessa in rete. E dà l’allarme. I russi l’hanno presa.
Vika viene portata prima a Melitopol. La torturano nel «garage», un centro di smistamento di prigionieri. E lì — raccontano i testimoni, altri prigionieri sentiti da Forbidden Stories — subisce torture di ogni tipo: scosse elettriche, pugnalate, botte. Poi viene trasferita a Taganrog. Qui, viene detenuta in un centro di detenzione preventiva noto come Sizo 2. «Quando è arrivata era piena di ogni tipo di droghe, poi praticamente iniziato a impazzire», racconta un altro testimone. Nelle stanze di tortura di quel carcere, soldati e civili vengono sottoposti a waterboarding, percossi e sottoposti a scosse elettriche sulla sedia elettrica. Una volta fuori dalle celle, sono costretti ad assumere una posizione stressante nota come “del cigno”: piegati in avanti con le mani giunte dietro la schiena all’altezza del petto. Il cibo viene severamente razionato, con quattro cucchiai e mezzo per piatto. Per Roshchyna, l’effetto è catastrofico. Smette di mangiare. «Le parlavamo, ma era persa nei suoi pensieri, con gli occhi terrorizzati», ricorda una sua compagna di cella.
Il suo peso scende a 30 chili. Il padre riesce a parlarle al telefono. Nell’aprile 2024, dopo quasi otto mesi senza notizie, le autorità russe e il Comitato Internazionale della Croce Rosse confermano la notizia dell’arresto di sua figlia. Poi, riceve una telefonata di quattro minuti dalla figlia in cui prova a convincerla a mangiare. «Nel frattempo avevo saputo da mie fonti che Vika avrebbe dovuto essere rilasciata il 13 settembre», spiega Musaieva. Ma il 10 ottobre, la caporedattrice riceve una chiamata dal padre di Roshchyna. Ha ricevuto una lettera dalle autorità russe che gli comunicano la morte della figlia. Poi, più niente. Le autorità russe negano perfino che Vika sia stata detenuta a Taganrog. Fino al 14 febbraio scorso, quando analizzando le liste dei corpi scambiati, gli intermediari della Croce Rossa Internazionale in una lista in fondo all’ultima pagina, vedono una voce misteriosa: «NM SPAS 757». E’ un’abbreviazione che sta per «uomo non identificato» e «danni estesi alle arterie coronarie».
Non è un soldato, non è un uomo. È una donna. È Vika. Le prime perizie forensi suggeriscono «numerosi segni di tortura». Segni di bruciature sui piedi causati da scosse elettriche, abrasioni su fianchi e testa e una costola rotta. I suoi capelli, che amava portare lunghi e tinti di biondo sulle punte, sono stati rasati. Fonti vicine all’inchiesta ufficiale hanno anche rivelato che l’osso ioide del collo è stato rotto. È il tipo di danno che può verificarsi durante lo strangolamento. Tuttavia, la causa esatta della sua morte potrebbe restare ignota perché, quando il suo corpo è stato restituito privo di alcuni organi: in particolare il cervello, gli occhi e la laringe.
Asportati, per nascondere i segni di tortura. Asportati, per cercare di nascondere un altro terribile crimine di guerra.
Dovrà finire prima o poi.