"Le Palle Delprete"

Il deserto senza il suo sole: Indian Wells e il tennis senza Sinner

Nel deserto della California – dove il tempo sembra rallentare, il vento solleva la polvere come in un vecchio western e le palme piangono di inedia – l’edizione 2025 di Indian Wells si è conclusa con una sensazione strana, quasi irreale. Il primo Masters 1000 della stagione si è giocato senza Jannik Sinner. E il circuito, senza di lui, ha mostrato una sua nuova, imprevedibile natura. Un po’ come un gruppo di liceali in gita senza il prof che mette ordine: caos, confusione e tanta voglia di dimostrare di sapersela cavare, ma senza una vera direzione.

Jack Draper: il miglior “surrogato” possibile.
La finale di Indian Wells è durata sessanta minuti, sessanta precisi e spaccati. Un’ora di tennis senza pathos, con Jack Draper che ha asfaltato Holger Rune con una facilità quasi imbarazzante. 6-2, 6-2, arrivederci e grazie. Draper, amico di Sinner e con uno stile – e qualche colpo – che a tratti sembra richiamarne lo stile, ha dato al torneo un vincitore credibile e meritato. Ma il problema è che non è mai sembrata una vera finale da 1000. Più che un duello all’ultimo respiro, sembrava un blando riscaldamento… prima di andare in spiaggia a giocare a racchettoni.

Rune, reduce da una settimana con prestazioni altalenanti, si è sciolto come un calippo nel deserto, lasciando la sensazione che Indian Wells senza il suo protagonista più atteso sia rimasto un torneo dimezzato. La vittoria di Draper ha ridato un po’ di luce al buco lasciato da Sinner, ma non l’ha riempito del tutto. Più una pezza che una soluzione.

E già, per il circuito, questo circuito, senza Sinner, sembra uno scuolabus di orfani spaesati.

Il caos senza Jannik
L’assenza di Jannik non ha solo modificato la dinamica del torneo, ma ha scombussolato tutto il circuito, come si era già visto negli ATP 500 di febbraio. Indian Wells, adesso, ha solo messo a nudo una verità che in tanti sospettavano: senza Sinner, il tennis di oggi sembra perso.

Carlos Alcaraz – quello che avrebbe dovuto replicare le sfide dei Fab Three in scala Fai Two – senza Jannik si è spento. S’è svuotato, come Sansone dopo una ceretta. Il fuoriclasse spagnolo non ha trovato lo stimolo che gli serviva, uscendo troppo presto e troppo male. Sembrava un leone, sì, ma uno da ZooSafari.

Alexander Zverev e Daniil Medvedev hanno fallito l’occasione di prendersi la scena. In un tabellone privo del numero uno del mondo, hanno annaspato tra errori e insicurezze. Più che assaltare il trono, sembravano indecisi se sedercisi sopra o scappare.

Holger Rune, il predestinato che dovrebbe incarnare il futuro, ha giocato una finale come se fosse una qualificazione di un challenger di bocce.

Tallon Griekspoor, che senza Sinner sta provando a prendersi un po’ di gloria (visto che quando c’è lo butta quasi sempre fuori lui), ha finito per scontrarsi con il proprio destino da eterno secondo.

Matteo Berrettini ha tentato ancora una volta il rientro, dopo l’altalena di questi ultimi mesi trascorsi fra colpi scintillanti e cadute mentali inspiegabili. Ha perso, sì. E ci sta.
Perché perdere ci sta, eccome se ci sta.
Però anche nel perdere c’è differenza.
Si può perdere combattendo, con il coltello fra i denti e il sangue agli occhi; con furore, rabbia e senso di rivalsa. Si può perdere all’ultima curva, si può perdere all’ultima riga.
E in quel caso perdere può contare più di una vittoria.
Perché lascia fame dentro, lascia rabbia addosso, lascia dedizione e furore nel cervello.

E poi si può perdere per sufficienza, per indolenza o leggerezza, proprio come con Tsitsipas.
Ma allora perdere non serve a niente, se non ad amplificare i rimpianti di ciò che sarebbe potuto essere, con un approccio differente.

Il peccato di Matteo, qui a Indian Wells, è che è sembrato giocare proprio con l’approccio sbagliato.
E questo, per lui, è un peccato ancora più grande.
Perché il tempo corre bastardo. Perché i treni su cui salire, quelli da prendere al volo dopo che sei arrivato a un passo dal cielo e poi per fato, infortuni e sfortuna sei caduto, passano sempre più rari.
E se Matteo non ricomincia a correre dietro quei treni col furore di cui è capace, c’è il rischio che non ne passino più.
E per un braccio come il suo, per un gioco come il suo, sarebbe un peccato capitale.

Stefanos Tsitsipas, al contrario, ha mostrato sprazzi di gran tennis, ma poi ha finito per perdersi in un gioco senza mordente.

Indian Wells, in fin dei conti, ha lasciato un messaggio chiaro: il circuito ha bisogno di Sinner, anche per accettare le proprie sconfitte. Quando Jannik c’è, esiste una gerarchia, una DoloMitica certezza. Senza di lui invece tutti sembrano confusi, smarriti, incapaci di imporsi come veri leader. Sembrano un branco di attori senza regista, con un copione che non convince più nessuno.

E fra loro, anche lui, il vecchio Re Leone che seminava panico al solo sguardo, quello che al solito ruggito si cambiava campo, quello che sembrava eterno e immortale. E invece…
Invece il tempo passa anche per lui.

Già, se c’era un giocatore che poteva approfittare dell’assenza di Sinner, quello era Novak Djokovic. Ne poteva approfittare al volo, per vendicare l’astro nascente che – più di tutti – gli ha smontato il trono da sotto al culo con quei match point ribaltati in faccia in semifinale di Davis; e con il doppio Schiaffo di Dio, imposto a distanza di 12 mesi in Australia.

Però il numero uno storico ha mostrato le prime crepe proprio in uno dei suoi infiniti regni. Il tempo passa per tutti, anche per quelli che si sentono immortali. E il torneo californiano ha messo in evidenza il suo declino.

Djokovic aveva ignorato l’assenza di Sinner, parlando di Alcaraz e Fonseca come i veri protagonisti del futuro. E invece. E invece fregna.

Perché proprio Fonseca, che Djokovic ha cercato di elevare a nuovo fenomeno, è stato demolito in un’ora da Draper. E perché proprio il serbo, nel momento della verità, ha dimostrato che, senza il suo rivale più forte, lui per primo si ritrova senza stimoli. Più che un Maestro, sembrava un professore rimasto senza alunni.

L’unico vero dubbio è Roma. Il Foro Italico non ha mai portato bene agli italiani, e se c’è uno che ha voglia di vincerlo, quello è Alcaraz. Ma questo torneo ha dimostrato che senza Sinner, Alcaraz non è lo stesso giocatore.

Quando tornerà, non avrà più sulle spalle il peso di un’ingiustizia da espiare. Non dovrà dimostrare più nulla a nessuno. E proprio per questo potrebbe essere ancora più devastante.

Per mesi il circuito ha creduto di potersi riassestare senza di lui, di poter costruire una narrativa diversa. Indian Wells ha mostrato che non era così.

Il tennis ha bisogno di Jannik Sinner.
Ma quando tornerà, saranno cazzi ancora più amari pe’ tutti.